mercoledì 30 luglio 2008

Hero

Ormai scafato da massicce dosi di papaje verdi, tigri, dragoni e concubine accommiatanti, pensavo di essere in grado di etichettare la nouvelle vague del cinema filmato all'ombra della grande muraglia semplicemente leggendone i titoli. Non che quei lavori mi fossero dispiaciuti, ma ritenevo di aver assorbito un numero sufficiente di spadaccini volanti, ventagli ed ombrellini di bambù, lame battezzate da ideogrammi, volti cerulei solcati da rossetti purpurei.


Forse è per questo che mi sono lasciato scappare Hero quando quattro anni fa è stato proiettato nelle sale. Zhang Yimou mi ha colpito fin dall'età liceale, quando registravo sulle VHS Sorgo rosso e Lanterne rosse. Non era solo il fascino esotico dell'Oriente, a catturarmi. C'era la spessa poetica dell'autore, la sua abilità nel ritrarre e comunicare gli aspetti profondi dell'animo dei suoi soggetti, pur senza tradirne l'imperturbabilità imposta dai cromosomi a mandorla. Mi immergeva in un mondo completamente estraneo, nel quale l'onore e tradizione erano i valori di riferimento, dove gli scambi verbali non erano numerosi né la forma di interazione privilegiata tra i personaggi. Il tutto catturato sulla celluloide con tocco genuinamente artistico, dando peso ai dettagli ritmici, fotografici, coreografici in quel modo essenziale, non hollywoodiano, eppure non dimesso che è proprio dei grandi talenti.

Pare che la fortuna di Hero in Occidente sia dipesa da Quentin Tarantino, che ne ha sponsorizzato l'uscita in America, in lingua originale sottotitolata, ottenendo un successo da primato per un film non anglofono. Il doppio DVD che ho per le mani, edizione italiana con contenitore metallico, contiene diversi interventi dell'autore di Kill Bill, che mi confermano l'idea piuttosto controversa che di lui mi sono fatto negli anni. C'è qualcosa di geniale in questo personaggio, e nel contempo vi è in lui una buona dose della classica ottusità del male. Resto convinto della ineludibile caratterizzazione somatica che, nel caso di Tarantino come in quello di Dario Argento, è inesorabile.


Negli inserti del DVD, Tarantino ripetutamente sottolinea quanto scettico fosse all'idea di assistere ad un film d'azione di Yimou, e narra di come i suoi dubbi si siano infine dissolti assistendo alla proiezione. Non gli viene nemmeno il dubbio che in Hero l'azione sia qualcosa di secondario, che il linguaggio di Yimou in fondo sia rimasto lo stesso di sempre. Definire Hero "film d'azione" è riduttivo ed offensivo, sebbene vi sia un'attenuante per Tarantino nell'intenzione.

Hero è la storia dell'incontro tra l'imperatore che 2000 anni fa unificò la Cina in un unico regno, ponendo fine alle battaglie che ne insanguinavano i territori, con un astuto ed abile assassino che lo vuole uccidere. Il tempo principale del film è tutto in questo incontro nel palazzo reale. I due parlano, e nel racconto dell'assassino viene rievocata la storia che l'ha portato fino all'interno di quell'iperprotetto palazzo. I vari flashback che si susseguono ci fanno rivivere gli incontri tra l'assassino ed altri tre nemici del futuro imperatore, due dei quali legati da una intensa relazione sentimentale. Durante la narrazione, questi incontri vengono rievocati in più riprese, dapprima secondo quanto l'assassino vuole far credere al re, quindi nel modo in cui il perspicace re capisce essere andate veramente le cose. Ogni evocazione presenta colori dominanti ben definiti (bianco, verde, giallo, ...) nella fotografia. Gli incontri contengono combattimenti di spada nello stile de La tigre e il dragone e di Kill Bill. A differenza di questi film, però, qui sono perfettamente funzionali alla poetica complessiva. Sono una gioia per gli occhi e nello stesso tempo non sembrano essere il fine di una pellicola che deve inventarsi una trama per presentarli. La differenza sembra sfuggire persino al protagonista, Jet Li, che nello speciale con Tarantino ripresenta la tradizione del film cinese di combattimento, da Bruce Lee in poi, quasi che Hero si inserisse in questa tradizione.

Hero è molto di più che una carrellata di combattimenti. Contribuisce, questo sì, a farci capire perché nella definizione arti marziali il termine arti non sia lì per caso. Ma il film starebbe in piedi anche privandolo completamente dei combattimenti. L'epica, poi, non sta tutta nella spada. Vi sono scene di massa memorabili. Le piogge delle frecce scagliate dagli arcieri sulla scuola e poi sulla porta del palazzo difficilmente non resteranno impresse nella memoria dello spettatore. Non per nulla questo è anche il film più costoso prodotto nella storia del cinema cinese.


Ma la narrazione dell'amore tra Cielo e Spada Spezzata costituirebbe di per sé materiale sufficiente a giustificare una pellicola. Il tema della calligrafia, dell'identificazione tra ideogramma e concetto, del lavoro richiesto per l'impadronirsi della scrittura assimilabile all'acquisizione di una filosofia, anche questo ripaga ampiamente il prezzo del biglietto.

Mi resta qualche velata riserva, della quale non sono comunque fino in fondo convinto. Mi pare che il messaggio di fondo del "sotto un unico cielo" sia un filo troppo retorico. Mi pare che questo messaggio sia necessariamente troppo gradito al regime totalitario cinese. Non ho un'idea precisa di quale sia il rapporto tra Yimou e la dittatura comunista oggi, dopo i noti attriti del passato. Lo spettacolo d'inaugurazione delle Olimpiadi lascia intendere che i problemi siano ben appianati. Credo che un Mussolini di oggi avrebbe alquanto gradito un'opera analoga ad Hero, trasposta nel contesto della conquista delle Gallie da parte di Cesare. Eppure questo toglie poco alla bellezza e completezza artistica del risultato.

venerdì 25 luglio 2008

In partenza

L'altra sera passeggiavamo sulla riva del lago di Monate. Il paesaggio era talmente suggestivo che non ho resistito. Pur avendo con me solo il telefonino, ho scattato qualche foto. Come previsto, non rendono nemmeno lontanamente giustizia, ma un'idea almeno la danno. Ecco la migliore.


Non viene tanta voglia di affrontare 9 ore di macchina per andare al mare, vero?

lunedì 21 luglio 2008

Vi sono diversità di carismi, ma...

La teoria proposta dall’amico Ric sulla selezione naturale delle civiltà nella sua risposta a questo mio post è affascinante. Sarebbe interessante fare un’analisi storica per metterla alla prova. Ho l’impressione che al variare delle fasi storiche otterremmo risultati contrastanti. Un bel laboratorio è forse la comunità europea di oggi. Mi sa che stiamo assistendo ad un’italianizzazione dell’Europa anziché ad una europeizzazione dell’Italia, quindi ad una decivilizzazione, ma è solo una discutibilissima impressione. Se poi ampliamo la scala a livello globale, mi sa che le civiltà scassate non siano proprio dei panda, semmai il contrario. Però può darsi che guardando bene all’insieme anche nelle civiltà più scassate siano in corso dei processi evolutivi e può darsi che situazioni come la degenerazione dell’Iran negli ultimi decenni siano solo un processo patologico destinato alla regressione. Sono comunque molto tentato di cedere all’ottimismo in questo campo, dato che tutto sommato credo abbastanza (irrazionalmente) nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità (manzonianamente aiutata in questo dall’alto).

Trovo interessante la sua provocazione sulla genetica. Non avevo nessuna intenzione di farvi riferimento e non ho capito perché vi ha accennato, ma già che ci siamo ci ho pensato su un po’. La genetica comportamentale è una nuova scienza che non è affatto imparentata con il razzismo. Stiamo uscendo dall’epoca in cui si tendeva a considerare, senza verifiche empiriche, che il comportamento dell’individuo fosse determinato dall’ambiente piuttosto che non congenito. Gli studi più recenti tendono a riconoscere che l’elemento più determinante nel valutare l’intelligenza di un individuo sia quello ereditario (ambiti: intelligenza generale, abilità spaziale, capacità del linguaggio), mentre per quanto riguarda il comportamento ci sia un’incidenza variabile ma approssimativamente paritetica di entrambe le componenti congenita ed ambientale. I dati sono esposti per esempio qui, testo del 2004, quindi recentissimo, nel capitolo “Nature and nurture”, p. 47 (guarda un po’, i risultati si ricavano grazie alle famose correlazioni di cui stiamo chiacchierando dalle parti di Ric). Avendo una vita in più sarebbe interessante leggere anche questo e questo. L’ambiente fa molto per quanto riguarda la cultura, ma a livello intellettivo (e quindi comportamentale) c’è poco da fare.

The overall conclusion is clear: if we are to understand the course of children’s development and the reasons why particular individuals become the people they are, we must take into account their hereditary make-up and appreciate the extent to which genetic factors play a part in determining behaviour”.

Non mi piace scrivere queste cose perché sono pienamente consapevole che possano essere utilizzate come anticamera di una delle pratiche più odiose e nefaste per la storia dell’umanità, quella razzista, e anche perché ho appena scritto in casa di Ric che sono piuttosto incline a giudicare poco affidabili i risultati delle scienze umane. Se però le diamo per buone, perché non potremmo estenderle ritenendo che anche a livello delle comunità l’ereditarietà dell’intelligenza comporti gli effetti macroscopici così evidenti nella diversità dei comportamenti e delle culture? E’ chiaro che ci sono parecchi fattori mitiganti, tra cui il fatto che le migrazioni ed innesti ci sono sempre stati, non so se più in passato che oggi, e quindi diventa ridicolo oltre che pericoloso sviluppare un idea di una “razza” o etnia integralmente migliore dell’altra, senza considerare che è evidente a tutti quanto persino nella stessa famiglia le intelligenze ed i comportamenti possano essere disomogenei. Però liquidare il tutto a tema politicamente scorretto dal quale tenersi lontani forse è infilare la testa nella sabbia.

Dunque, che conclusioni trarre? Abbandonare il napoletano a se stesso concedendogli leggi che gli consentano di vivere nel suo casino cronico perché questo è tipico della sua cultura oppure conseguenza del cervello che gli è dato dal ceppo genetico? Costringerlo con la forza pubblica a seguire modelli che non gli sono propri e mai lo saranno in nome della superiorità di una civiltà altrui?

Forse la strada migliore è quella indicata dalla Chiesa, sulla scorta di san Paolo:
“Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito […] a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole”.

Giovanni Paolo II commenta:

Ma occorre prestare attenzione anche a un altro punto della dottrina di san Paolo e della Chiesa, che vale sia per ogni specie di ministero sia per i carismi: la loro diversità e varietà non può essere lesiva dell'unità. «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore» (1Cor 12,4-5). Paolo chiedeva il rispetto di quelle diversità, perché non tutti possono pretendere di svolgere la stessa funzione, contro il disegno di Dio e il dono dello Spirito, ed anche contro le più elementari leggi di ogni struttura sociale. Ma l'Apostolo sottolineava ugualmente la necessità dell'unità, che rispondeva anch'essa a una esigenza di ordine sociologico, ma ancor più doveva essere, nella comunità cristiana, un riflesso dell'unità divina. Un solo Spirito, un solo Signore. E, quindi, una sola Chiesa!

Credo che anche una società globalizzata possa attingere allo stesso modello. Rispettiamo quello che c’è di buono nel napoletano e non disperiamo nella possibilità di trovare un’unità tra lui ed il meranese, o tra l’islandese e lo zimbabwese. Non abbiamo paura però di cercare in tutti i modi di far sì che ci sia un’unica Umanità, la quale riconosca volente o nolente alcuni principî ineludibili. (Nella piccola bottega italiana, il federalismo fiscale nulla toglie a questo intento e mi sembra un’ottima soluzione se finalizzato al rispetto delle diversità.)


Nella mia prospettiva, in questa ricerca non ci accontenteremo di cercare il minimo comune multiplo né avremo troppe preoccupazioni di tutelare i panda. Non avremo paura di confrontare gli esiti che i vari modelli proponibili comportano nel tenore di vita dei loro cittadini. Ricorreremo a feliciometri di vario genere per aiutarci nella selezione, consapevoli che mai avremo la risposta definitiva in questa ricerca. Non esporteremo i modelli a viva forza perché abbiamo da tempo imparato che questo è controproducente, semmai adotteremo quelle tattiche subdole ma efficaci, eminentemente pubblicitarie, che dagli anni ’40 in poi hanno americanizzato con successo buona parte del mondo.

venerdì 18 luglio 2008

Appunti di viaggio - Terme di Merano

L'esperienza altoatesina è unica.

Al di là della cornice indescrivibile, vi si trova un livello di civiltà difficilmente riscontrabile nel resto d'Italia. Tutto fuziona bene, tutto è ordinato, ogni dettaglio curato. E' il frutto dei fiumi di denaro elargiti dal governo italiano e ben spesi dalla provincia autonoma, indubbiamente, ma c'è qualcos'altro: una cultura civile radicalmente diversa da quella dell'italiano medio. C'è una compostezza nell'individuo di stampo teutonico, una rigidità dei comportamenti che a volte ci fanno sorridere, ma si traduce negli invidiabili risultati che colpiscono non appena si mette ruota in quei territori.

Il pragmatismo scevro di ipocrisie che qualche volta per noi sfiora la rudezza. Una meranese in sauna mi rimprovera in tedesco perché ho girato una clessidra in cui non sono scesi ancora pochi granelli di sabbia. Le obietto che ormai per me è praticamente completata. "No, mancano ancora 30 secondi alla fine." Dopo i 30 secondi, un "grazie" gentile, e esce. Quanti comportamenti di questo tipo, per noi così ridicoli, fanno parte di quella cultura? Eppure in fondo è grazie a quei comportamenti che c'è un abisso tra i paesi di impronta tedesca, ordinati, puliti, affidabili, "sicuri", ed il caos tipico che governa i popoli latini ed in particolare l'Italia.

I teatri, con i loro ricchi programmi, le terme in cui si riesce ad essere tranquilli pur tra centinaia di persone (cellulari vietati, sigarette vietate, non si mangia fuori dagli appositi spazi, ...), il cibo raffinato. L'erba è perfetta, ogni dettaglio è al posto giusto. I giochi per i bambini sono fantasiosi, accattivanti, stimolanti.

Annullamento delle ipocrisie che arriva all'ingenuità. Non c'è un topless nelle piscine e nel parco. Nelle saune invece tutti girano completamente nudi e con naturalezza. Chi indossa un costume, chi fa uscire un piede dall'asciugamanto rischiando di far cadere qualche goccia di sudore sull'abete, chi esce dagli schemi viene immediatamente ripreso dagli addetti. Ogni situazione prevede il suo comportamento, funzionale. Il risultato è che alla fine tutti stanno meglio (c'è una piccola eccezione nel malcostume universale di tenere occupati i lettini con gli asciugamani per ore, sia nelle piscine che nella zona wellness, ma non ho ancora trovato un posto al mondo in cui questo non accada).




Potrebbe un simile modello essere esportato? Funzionerebbe da noi semplicemente applicando più controlli? Io credo di sì, ma non credo che ci sia la volontà diffusa di percorrere una simile strada. Il lago di Monate è un piccolo angolo di paradiso. Purtroppo rovinato dal comportamento tipico dei beceri che fumano, gettano mozziconi, mangiano e lasciano piccoli rifiuti, schiamazzano, invadono. Forse già il far pagare un biglietto discriminante potrebbe risolvere un po' di questi problemi.

Ma c'è qualcosa che ancora sfugge. Anche le terme di Montegrotto che ho recentemente frequentato non hanno prezzi d'accesso tanto popolari. La clientela non era male. C'è tuttavia qualcosa nel contesto che fa una differenza abissale, e non solo la cornice unica delle montagne dolomitiche. C'è la cura dei dettagli architettonici, ci sono le strade in ordine, i negozi perfetti, la gente che ha cura di sé e dell'ambiente. C'è la tecnologia applicata ovunque con sistemi ben studiati. C'è la fiducia (alberghi che lasciano portare fuori asciugamani ed accappatoi senza controllo, cibo dato al bar sulla parola che pagherò ad una cassa lontana 500 metri, ...). Forse questo è il frutto di un regime fiscale assurdo, ma quanti altri paradisi fiscali in Italia che non raggiungono i risultati dell'Alto Adige? Già il pur ottimo Trentino, così vicino, è un altro mondo. Non parliamo della Vallé di Aosta. Se poi scendiamo in Sicilia...

Mi chiedono 16 euro al giorno solo per il posteggio dell'auto. Ma se è il prezzo per avere una Merano così perfetta, pago volentieri.

giovedì 10 luglio 2008

Che cos’è un uomo?

C’è sempre qualcuno che si arroga il diritto di stabilire se la vita di un’altra persona valga o meno la pena di essere vissuta. C’è sempre il Veronesi di turno che parla di diritti, di autodeterminazione, ben sapendo che si parla di stati in cui l’autodeterminazione non è esercitabile. Gli ingenui assecondano questi personaggi equivoci, senza nemmeno dedicare un secondo a considerare quali possano essere le conseguenze se certi limiti vengono superati.

Il bello è che questa gente è in genere la stessa che con leggerezza etichetta come “fascisti” provvedimenti (magari anche discutibili) o governi solo perché sono contrari alle loro idee. Senza tener conto che cifra del fascismo (mutuata dall’alleato nazista) era proprio il fatto che qualcuno stabiliva se altre persone fossero o meno esseri umani, se fossero o meno degni di vivere, se fossero o meno degni di vivere liberi. Queste tendenze sono – per usare un aggettivo ormai logoro – carsiche. Ogni tanto riaffiorano.

Quelli che le sostengono sono sempre abili a gettare fumo negli occhi degli sprovveduti. Tanto che usano mezzi come far morire una persona per fame in nome della loro umanità (già, ma per loro non è più una persona degna di tale definizione), accusando la Chiesa di essere poco umana. Il caso Terry Schiavo si ripete. Forse oggi è un po’ più difficile, almeno in Italia, tanto che arrivano ad aspettare la metà luglio per tentare di mettere in atto di soppiatto i loro propositi funesti. Speravano che fossimo tutti distratti? Oppure pensano di coglierci per estenuazione, a furia di provarci e riprovarci?

Nessuno abbassi la guardia. Certi varchi, una volta aperti, è molto dura richiuderli. La storia non si ripete mai, ma qualcosa comunque insegna.

martedì 8 luglio 2008

Il rock, il pop, l'Arte

Ric (rispondo qui al tuo commento, vista l'estensione della risposta), so che non è semplice stabilire cosa sia Arte e cosa no. Credo che non ci sia nessuno, tranne qualche matto o patetico provocatore, che possa mettere in discussione che quella di Bach, di Caravaggio, di Dante, di Brunelleschi, sia arte. Al di fuori di quella (ricchissima) vena, quella dell'Arte a 24 carati, c'è un limbo altrettanto ampio, sul confine tra arte ed intrattenimento. Io faccio fatica a stabilire se Blade runner o Star Wars siano arte o no, se lo siano i progetti di Renzo Piano, se lo sia una Ferrari, una buona pizza, il lavoro di un bravo muratore. La famosa "tabellina" è virtuale, non esistono formulette, né esiste un'oggettività nella classificazione. E' lecitissimo che tu possa proporre che Vasco Rossi faccia arte, e che io lo escluda categoricamente. Però questo significa che Vasco Rossi sta in quel limbo, al contrario di Bach. E già lo stare nel limbo per me è motivo sufficiente per cambiare colore al bollino.

L'arte deve nutrire e dare soddisfazione alla mente. Ogni mente ha bisogno di nutrimenti diversi, forse la risposta è tutta lì.

Nota che da sempre sostengo che è difficilissimo valutare la produzione artistica contemporanea. Il tempo è un bel setaccio, che fa sedimentare le cose di minor valore e trattiene quelle migliori. Siamo bombardati, oggi più che mai prima, da proposte innumerevoli. Non è facile valutarle. Oltretutto quelle che arrivano più facilmente sono quelle più easy, più intrattenenti, meno faticose. 30 anni fa, in certi ambienti artistici, era facile sentire persino i più sgamati dire cose come "la musica è morta alla fine dell'Ottocento". Poi però tutto ormai concordano che Stravinski, Messiaen, Duruflé, Ravel e vari altri avevano comunque qualcosa di buono e di nuovo da lasciare. Ci sono anche tanti altri nomi che persistono, ma che difficilmente si troveranno nelle locandine delle stagioni concertistiche. Lo stesso vale per il secondo Novecento, ma tirare fuori i nomi è molto più difficile. Sarà più semplice per i nostri figli. Soprattutto in Italia, dove non c'è proprio spazio per l'arte contemporanea, non ci sono soldi, viene dato sostegno agli immanicati coi politici, non c'è preparazione per gli esecutori. In Inghilterra, negli Stati Uniti, in Germania, l'arte "colta" vive e vegeta. Ci sono cose magnifiche, in mezzo a tanta fuffa, che qui da noi non ci sognamo nemmeno. C'è gente che sa improvvisare così ed ha gli strumenti su cui farlo. Non c'è la muffa che c'è nei nostri conservatori. (A proposito di conservatori, di rock band che si esibiscono nei conservatori o nelle sale da concerto per fortuna non ce n'è molte. Non traggo nessuna conseguenza dal fatto che ciò avvenga, che giustifico con motivazioni economico/commerciali oppure, nei mometi di generosità, come sperimentazioni. Ho il DVD di Björk al Royal Opera House di Londra, magnifica ma innegabilmente fuori luogo. Se penso poi che in queste sale si sono esibite spazzature quali i Deep Purple o Battiato...)


Purtroppo riscontro che abbiamo concezioni abbastanza lontane su cosa vogliamo dalla musica. Gli elementi che chiami "noise", "indisciplinata rumoristica" per me sono disturbo. Sfortunatamente anche la mia già citata Björk negli ultimi album è su questa china. C'è una compostezza, un ordine che è per me necessario nell'Arte. Se è ipotizzabile un isomorfismo tra arte e qualcos'altro, per me c'è tra Arte ed Ordine (stiamo parlando di due concetti astratti, per cui è ovvio che isomorfismo va preso come metafora). Il rumore è caos, disordine, quindi poco artistico, anche se non nego che possa essere usato in modo ordinato (ho in mente una performance degli Stomps cui ho assistito, oppure ancora Björk). Dunque, gli "effetti distorsivi" che mancano nelle partite di Bach (in compenso ricchissime di effetti ritmici e di armonie inusuali), come in tutta la musica precedente l'introduzione degli strumenti elettrofoni, è per me ragione di ordine e quindi di merito. Forse sarò ingenuo nel credere che la produzione dell'arte (non mi spingo a dire la fruizione, per non passare per classista) sia riservata agli spiriti eletti, a quelli più raffinati, e sia preclusa a quelli rozzi che così spesso calcano i palcoscenici rock.

Non credo che sia ingenuo invece cercare nella musica almeno la padronanza del linguaggio da parte dell'autore. La musica è fatta di quattro elementi: melodia, armonia, ritmo, colore (timbro). Questi ci danno ampio spazio di manovra. Possiamo anche giocare a sottrarre, a scarnificare uno o più di questi elementi. Ma vorrei che questo gioco lo giochi chi è maestro del linguaggio, non chi lo fa perché è privo di mezzi. Questo non significa che non possa dare il bollino blu a culture artistiche diverse, che usano linguaggi, tavolozze armoniche, ritmiche, melodiche e timbriche diverse. Ci mancherebbe altro! Anzi, trovo che quello della contaminazione sia un territorio interessantissimo ed ancora in buona parte da esplorare (quello che ha fatto per esempio il grande Bartók).

Il rock però si innesta solo sulla radice della musica occidentale, dalla quale prende pochissimi elementi e con questi costruisce tutto. Linguaggio "povero", dunque (e sull'arte fatta con mezzi poveri sono sempre stato scettico). Nota che trovo ammirevole la ricchezza (in termini quantitativi e qualche rara volta qualitativi) dei risultati che riesce a tirare fuori da questi poveri elementi, ma non si può dire che semplicemente il rock utilizzi un linguaggio diverso dalla musica colta. Sarebbe come dire che Moccia fa arte, che semplicemente usa un linguaggio diverso.

Come ho già detto, la musica "incolta" mi piace, qualche volta anche parecchio, ed ho un discreto numero di dischi. In passato sono stato anch'io tentato di pensare che la musica "colta" fosse qualcosa di sterile, fuori dal tempo, sperimentale, inutile, mentre che l'arte del nostro tempo sia quella che la gente apprezza di più, la musica leggera, il cinema facile, i libri di Camilleri e di Baricco. Poi, certe esperienze mi hanno fatto cambiare radicalmente idea, sebbene un problema di fondo di fruibilità dell'arte contemporanea indubbiamente esiste (in passato l'arte di Bach, di Mozart, di Verdi, sebbene non "popolare", veniva canticchiata anche dal volgo, oggi chi canticchia Xenakis o Ligeti?). Forse un compromesso può essere la strada dell'innesto di stilemi "pop" nella musica colta, com'è avvenuto fruttuosamente col jazz, e sono praticabili anche altri innesti multimediali. Vari artisti contemporanei qualche volta sono riusciti a portare frutti interessanti (anche qui, tristemente, mi vengono in mente solo esempi inglesi ed americani, nomi che da noi non arrivano nemmeno, nessun italiano). Ma il pop è talmente povero che di solito riesce solo ad immiserire tutto quello che tocca.

Dei nomi che hai citato purtroppo non ce n'è uno che mi dica qualcosa. Non conosco tanto, lo ammetto. Forse la mia drasticità in fondo deriva da ignoranza, non lo nego. Qualche volta ho provato a cercare qualcosa di pop fuori dal mainstream. Sfortunatamente le delusioni sono state cocenti. Avrò l'orecchio deformato, non so. Anche provando ad ascoltare qualcuno dei brani linkati nel tuo blog, resisto pochi secondi, mi annoiano e mi disturbano. Il limite nel giudizio complessivo sarà senz'altro mio. I limiti nella padronanza del linguaggio da parte di quella gente, però, oserei dire che sono oggettivi. Se però hai voglia di propormi qualcosa, sarò molto lieto di accostarmici.

Avrei qualcosa da dire anche sui testi della musica pop e sulle loro suggestioni. Ora devo però buttarmi a capofitto nel lavoro. A presto.

domenica 6 luglio 2008

Sulla completezza dell'arte

Credo e spero di aver capito quanto l’amico Broncobilly voglia dire, nelle sue riflessioni sull’arte. Ne colgo le buone intenzioni e, tutto sommato, condivido gli intenti. Tuttavia continuo a vederla diversamente. Non sono completamente d’accordo nell’impostazione degli 8 punti, pur ammettendo che non l’ho meditata abbastanza da esprimere un mio parere definitivo.

Vorrei a questo punto trarre qualche conclusione dalla discussione che ne è seguita. Di fatto non credo che l’arte debba ambire alla completezza. E’ un ideale che trovo velleitario, utopistico e, quello che è peggio, inutile. Non fosse altro che perché è in ogni singola opera che si dà la patente di “arte”. Se anche un artista possa lecitamente ambire alla completezza, se anche qualche artista - credo - la raggiunga, difficilmente possiamo credere che ogni singola opera di ogni singolo artista rappresenti il Tutto. Prendiamo per esempio un quadro che mi ha folgorato completamente quando mi ci sono trovato davanti al Prado, Las Meninas del Velasquez.



Non so giustificare perché, ma poche volte un dipinto mi ha sconvolto come quello. Bronco concorderà che contiene molto, tra cui quegli elementi che nega appartenere a Bach, che nasce una trentina d’anni dopo quel quadro. Forse c’è quasi tutto, in quel quadro, ma c’è davvero tutto? Tutta l'umanità è raffigurata in quel quadro? Tutto il trascendente? Non credo.

Mettiamo in discussione, a questo punto, la prop4. La singola opera d’arte non può essere completa, non può ambire a rappresentare il Tutto come suo oggetto e soggetto. L’infinito non può stare nel finito (anche se concordo che l’arte debba necessariamente trascendere, portare il fruitore oltre la sua finitezza) né, se lo scopo dell’arte è la ricerca del “bello” (e io credo di sì, purtroppo tantissimi dissentono, l’estetica di Adorno ha ancora oggi parecchi adepti), la completezza è utile ai fini della bellezza. Però, se sostituiamo totalità con universalità, allora forse ci siamo.

L’universalità è una necessità per l’arte sotto diversi aspetti. Universalità di spazio, di tempo, di livello di comunicazione. Deve comunicare qualcosa (non necessariamente un messaggio politico, mi accontenterei di emozioni, sensazioni, interpretazioni puramente estatiche) al “tecnico” tagliato come al bambino eschimese che si trova davanti per la prima volta senza possedere alcuna chiave per decifrarne il linguaggio, o possedendone solo i rudimenti. Purtroppo troppa supposta arte del Novecento ha fallito sotto questo aspetto. Comunica qualcosa solo a chi è in grado di coglierne riferimenti, allusioni, contesto, sottintesi, mirando a trasmettere un messaggio, quasi sempre provocatorio, anziché un’emozione.

Bach è universale, anche nell’Arte della fuga. Il Pierrot lunaire forse lo è un po’ meno. Molto meno lo è anche Vasco Rossi, che soddisfa i palati più facili ma lascia parecchia arsura nella bocca del musicista. Non nego che anche un musicista possa avere reazioni emotive di fronte a Vasco Rossi (non credo proprio, ma non lo nego del tutto). Insomma, a me piace ascoltare il brit pop degli anni ’80, vado matto per And that's no lie degli Heaven 17.

Non la considero però Arte, poiché sono troppi i “livelli” che mancano in quella musica. Soddisfa solo gli istinti più bassi, sia dal punto di vista musicale che dal quello testuale. Ciò che spesso oggi viene chiamata arte o cultura, è in realtà solo una pseudoarte. Non credo che l'Arte possa essere creata da persone che non abbiano una preparazione tecnica di livello elevatissimo (premessa necessaria ma non sufficiente). La pseudoarte imperversa ai cinema, sugli scaffali delle librerie, nei negozi di dischi, in televisione, su internet. E' lecitissima, io ne fruisco a piene mani, mi diletta. Ne colgo però tutti i limiti, ci sono corde che non tocca minimamente, non comunica ai “piani alti”. Allora, se la totalità cui fa riferimento la quarta proposizione di Bronco è questa, sottoscrivo quell’affermazione. Ma a questo punto non capisco come possa negare questa completezza a Bach.

Mi prendo ora la briga di copiare l’amato Pontiggia di Prima persona.


Arte e provocazione - Un quadro bianco, quando lo dipingeva Piero Manzoni, era una provocazione (e anche un quadro). Ventidue quadri bianchi erano una mostra (ricordo quando l’avevo visitata con lui che mi spiegava, ridendo con serietà, che cosa significavano i titoli, ad esempio La sofferenza di Patroclo, in rapporto alle tele). Ma due mostre di quadri bianchi che cosa sono? E sette mostre?
Molta arte di avanguardia si elide per contiguità. Basta radunarla. Non accade lo stesso per il Quattrocento toscano.

venerdì 4 luglio 2008

Remake

Associazioni di idee, corticircuiti mentali. Succede che un brano occasionalmente sentito alla radio funzioni come la macchina del tempo del Doctor Who.
Ho sempre considerato scellerata l'idea di rifare opere altrui, ancora più quando hanno segnato un'epoca. Non ho mai capito il bisogno di tutte le cover che gruppi e gruppetti propinano a raffica. Per me è segno di scarsità di spunti innovativi. E in effetti, pur non frequentando comunque granché il genere "leggero", da anni il nuovo che mi capita di ascoltare per radio fa quasi sempre rimpiangere il vecchio. Ma forse si tratta solo di un mio limite, forse non ascolto abbastanza le novità (Radio 3 non è esattamente la stazione migliore per conoscere cosa accada sul pianeta della musica non impegnata - purtroppo non lo è nemmeno per quello che riguarda quella impegnata... tra l'altro su queste distinzioni sarà forse il caso di ritornare). Stamane durante la pubblicità di Radio 3 ho girato un attimo su Radio 1, imbattendomi in una tredicenne che cantava questo:




Commerciale? Sì, certo. Almeno secondo i miei standard. Ma le suggestioni sono gradevoli. Forse mi toccherà rivedere la mia opinione sulle cover.
(Grazie al vecchio Broncho per gli spunti.)

mercoledì 2 luglio 2008

Гласность!

Pontiggia, nella conversazione da "Dentro la sera" registrata nel 1994 e replicata stasera da Radio 3, ironizza brillantemente sull'uso (o abuso) dell''attributo "trasparente" da parte della critica letteraria, sostenendo che ciò presupponga l'idea secondo cui il nostro fondo sia naturalmente buono e meriti dunque di essere scorto: un po' come gli adolescenti, che auspicano di trovare una fanciulla che li comprenda davvero. "Come se avessero da guadagnarci".

Mi sono trovato in macchina piegato dalle risate. Quanta sagacia in Pontiggia! Oggi ancora più che nel 1994 la trasparenza è uno slogan invocato in ogni occasione (il culmine si è visto nella sciagurata pubblicazione dei redditi compiuta da Visco).

Ma alla fine, da tutto questo vetro, chi ci guadagna?

martedì 1 luglio 2008

Juno e l'articolo scellerato di Repubblica

Ho scritto quanto segue il giorno dopo aver visto lo splendido film Juno e avendo letto un articolo che condivido assai poco nei toni.

Credo che sia un po' difficile commentare la vicenda raccontata nell'articolo di Zucconi su repubblica (e più seriamente in un articolo del Corriere) senza aver visto quel film.

E' un film bellissimo, tutte le persone con un minimo di maturità dovrebbero vederlo. Leggero, pieno di ironia, ma allo stesso tempo fortissimo, per come affronta il tema della gravidanza indesiderata senza enfasi retorica, con naturalezza. "Fresco" è l'aggettivo che più ricorre nei commenti al film visti su internet.

Purtroppo da noi il film non funziona bene come in America: le ambientazioni e le situazioni sono 100% yankee, lo slang è spesso intraducibile nella fulmineità delle sue battute.

Non è difficile immaginare che Juno possa diventare un'eroina per le adolescenti americane. E' vietato ai minori di 15 anni e guardacaso le ragazze del Massachusset ne hanno 16. Al di là del "patto", chissà quante altre ragazzine si saranno fatte individulamente ispirare da Juno! E, sinceramente, non trovo del tutto brutta la cosa. Sì, a 16 anni è presto; sì, è da irresponsabili farlo per scelta, si deve sapere che un piccolo ha bisogno anche del padre, oltre che della madre. Però forse meglio a 16 che alla media standard attuale delle mamme-nonne 35-40enni! Il corpo umano è fatto in un certo modo e credo che andrebbe assecondato nelle sue fasi.

La vicenda dell'articolo ha uno stretto legame con la poetica di Juno, ovviamente, e per vari motivi. Diventa però insana nell'idea di volontariamente cercare di escludere il padre, tenendosi il bambino (è pur vero che anche il figlio di Juno andrà ad una donna sola, ma solo per una fatalità non prevista).

Quello che però mi preme sottolineare, contestualizzando l'articolo nella nostra mentalità di italiani, è come lo Zucconi, che mi vien voglia di chiamare zuccone, racconti la faccenda. Voglio sottolineare un lapsus freudiano di Zucconi:
storie sentimentali ed edificanti di donne che decidono, anziché abortire come sarebbe stato loro diritto e scelta, di far nascere il bambino e che sono state adottate da movimenti abortisti come materiale di propaganda "per la vita".


Già la frase in sé, fosse anche priva del lapsus, sarebbe da brivido (sottintendendo che sarebbe "diritto e scelta" naturale e corretta della madre quella di abortire, e dando una connotazione negativa al "materiale di propaganda per la vita" - con delle virgolette molto sospette). Ma i movimenti abortisti per la vita? Dove mai si sono visti?? Come potrebbe un giornalista lasciarsi sfuggire una simile castroneria, se la difesa della vita gli stesse minimamente a cuore?