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venerdì 10 ottobre 2008

Una Juno vera e tutta italiana

E' importante la storia che ci racconta Federica. Federica ha 16 anni ed aspetta un bambino, ovviamente non cercato. La sua storia pare la stessa di di quella di Juno, solo che questa volta Federica non è un personaggio inventato.

E' importante la sua storia per tanti motivi. E' importante soprattutto perché è la testimonianza che le scorciatoie non sono l'unica soluzione al problema, e di queste testimonianze c'è estremo ed urgente bisogno. Ma è importante anche per altri motivi.

La vicenda ha dell'incredibile. Federica è incinta, e la sua prof non trova di meglio da fare che assegnare alla classe un tema (una "traccia" si dice oggi) del genere: Oggi, più che mai, è necessario sensibilizzare i ragazzi all’educazione alla sessualità ed alla protezione. Prendendo spunto dall’articolo letto insieme, dai testi forniti e dall’esperienza diretta che ha coinvolto la nostra classe stessa, scrivere un saggio breve/articolo di giornale. E correda questa traccia con una serie di incredibili "documenti".

Stento ancora a credere che si possa essere così indecentemente privi di tatto e di sensibilità. Una cosa del genere, a mio parere, dovrebbe finire sulle prime pagine dei quotidiani, o almeno in quelle interne. Invece ci finiscono le lettere di una mitomane che sente un'ingiustificata "paura" perché il figlio adottivo è peruviano e potrebbe essere "vittima di qualche discriminazione o, ancora peggio, di violenze". Federica non ha paura di essere vittima di discriminazioni, Federica è vittima di discriminazioni, gravissime, e nessuno ne parla.

Tornata a casa, ha scritto sconcertata alle amiche che ha trovato nel Dono, un associazione meritoria che crede che per risolvere il problema delle gravidanze indesiderate ci siano altre soluzioni che aborto, pillole del giorno dopo e simili. Non aveva intenzione di svolgerlo, quel tema, ma le amiche la convincono a farsi forza e scrivere.

E che tema! Ci dice che quello che ha nel grembo non è un "problema", è una persona. Ci dice che non è vero che la sessualità, a quell'età, sia un giochetto per vincere la noia. Ci dice che intorno a sé sente solo riprovazione, condanna, emarginazione. Non per quello che ha fatto, ma per quello che non ha fatto, cioè sopprimere suo figlio. Ci dice che la stampa ci sommerge di un mare di falsità, anche gravi come questa: "Per ragioni di salute Per una ragazza molto giovane una gravidanza può comportare rischi per la salute. A 15 anni o a 17 anni, il corpo femminile non ha ancora finito di crescere e non è ancora pronto per accogliere un bambino."

Ci dice soprattutto che a 16 anni si può essere maturi, più maturi di quanto molta gente (insegnati, medici e giornalisti compresi) potrà mai essere nella sua intera vita. Daniele, con una mamma così, se anche dovesse avere qualche difficoltà, sarà un bambino fortunato. Più di molti bambini nati da coppie che hanno, secondo quanto prescrive il canone progressista ormai mainstream, "i mezzi economici, il tempo, la maturità necessaria per poter allevare un bambino".

(Una discussione su questo post è disponibile qui.)

giovedì 2 ottobre 2008

Potenza ed atto

Commento a notizia appena letta sul Corriere.

Dobbiamo rallegrarci o rattristarci per questa notizia? Propendo nettamente per la prima ipotesi. Leggere delle farneticazioni prodotte dalla Cassazione nel 1993 (l'autodeterminazione della donna farebbe sì che, se si uccide una donna incinta, l'aborto - la soppressione del feto - che ne consegue sarebbe "minore e incidentale" e quindi irrilevante ai fini della pena) mette un po' i brividi, e vedere che un giudice definisca quella sentenza con un ironico e sprezzante "suggestiva" non può che far piacere. Fuori da ogni ipocrisia, è evidente ci siano delle contraddizioni legate alla 194 cui non si potrà rimediare altrimenti che eliminano il presunto "diritto" della donna di sbarazzarsi a capriccio del proprio figlio, ma questa coerenza pare essere utopia irraggiungibile.

Quello che lascia un po' di amarezza, però, è che un'ovvietà come quella pronunciata dal giudice di Milano debba ancora essere una notizia, e che si legga nella sentenza una cosa quale
l’interruzione di gravidanza è stata il movente dell’imputato, determinatosi a terminare due vite (l’una in atto e l’altra in potenza).
Una vita "in potenza"? Cioè, quella del feto non sarebbe ancora una vita?

Dunque, in quest'ottica (se proprio non vogliamo dire che un feto è vivo - ragionando per paradosso e tentando di interpretare il pensiero dei pro-choice), gli stati di riferimento nel ciclo di un essere vivente dovrebbero essere:

  1. vivo in potenza,
  2. vivo in atto,
  3. morto in potenza,
  4. morto in atto.

(Già che c'ero, ne ho introdotto un quarto: quello del "morto in potenza", così ho sistemato anche situazioni come quella della Englaro e di Welby.)

Ovviamente limitarsi a classificare questi stati non porta a niente. E' necessario stabilire che ad ogni stato si attribuiscono diritti umani fondamentali specifici. Pieni diritti, chiaramente, si assegnano solo allo stato 2. Negli altri stati non si gode a pieno titolo dei "Diritti dell'Uomo". Tutto bene? Mah, io già metterei i paletti prima di questo punto: a mio parere gli stati sono solo 2. Per molti, però (credo in larghissima parte per coloro i quali non sono usi pensare a queste cose e si lasciano influenzare da correnti di pensiero dominanti), questa impostazione è plausibile, tanto che la ripartizione negli stati 1, 2 e 4 è ormai riconosciuta in quasi tutto il mondo, e vari Paesi riconoscono che lo stato 3 non dà diritto di godere dei pieni diritti (qualcun altro ha titolo per decidere se la propria vita possa continuare o meno).

Ho la sensazione che però sia evidente a tutti quale incoerenza, quali rischi si corrano accettando questa impostazione. I passaggi di stato da 1 a 2 e da 2 a 3, infatti, non sono quasi mai netti e chiari. Provate a dire a qualunque madre sana di mente al 6° mese che suo figlio non è davvero vivo, è solo vivo "in potenza" e poi mi raccontate cosa vi risponderà. Se la madre non è una delle purtroppo troppe donne irriflessive che circolano, la stessa reazione l'avrà molto prima del 6° mese. Se è una donna intelligente, quella reazione l'avrà dall'inizio della gravidanza.

Per essere pienamente coerenti, oltretutto, credo che i paladini delle divisioni di stato (dove ad ogni stato corrispondono diritti umani di base differenti) dovrebbero introdurne un quinto:

  1. vivo in potenza,
  2. vivo in atto,
  3. vivo in atto ma handicappato,
  4. morto in potenza,
  5. morto in atto.

Non è purtroppo solo l'ipotesi di un'utopia negativa (o distopia, come va di moda dire oggi). Da qualche parte s'è fatto. Spero non ci sia bisogno di commentare.

martedì 2 settembre 2008

Hawking, il futuro dell'umanità e gli extraterrestri

Hawking non è mai banale. Decenni di scientismo ci hanno portato all'idea che deve esserci per forza altra vita nell'Universo.
In effetti numeri non possono che lasciarci con un senso di umiltà. Non possiamo nemmeno immaginarli. La scienza dice cento miliardi di galassie fatte ognuna di un centinaio di miliardi di stelle. Una stima di diecimila miliardi di miliardi di pianeti (10^22), i dati recenti dicono un po' di più. Chi può immaginare un numero simile? Diamo a questo numero 15 miliardi di anni per farvi cozzare atomi e molecole, vuoi che noi, che abitiamo nella periferia di un braccio di una di questi miliardi di galassie, siamo l'unica forma di vita intelligente? Questa, quella di Carl Sagan, è la tipica impostazione del ragionamento che ci è stato presentato dalla scienza. Finora.

In seguito a questa logica sono state spese ingenti risorse per cercare altre forme di vita. Sono stati dedicati radiotelescopi, e sono state mandate sonde contenenti informazioni sulla nostra razza, ad uso di eventuali altre civiltà cui giungessero queste sonde. Quanto saggiamente non si sa: carina è la battuta del Doctor Who (nuova serie 2, primo episodio) che ci dà degli incoscienti per tutto il baccano che facciamo nell'Universo cercando di farci notare, cercandoci rogne visto non abbiamo alcuna idea delle intenzioni che potrebbe avere una eventuale razza aliena che ci notasse.

Su tutto questo campa non solo il Doctor Who, ma tutta la fantascienza. Quella più alla buona è ovviamente quella cinematografica/televisiva. Hawking prende due paradigmi: quello positivo di E.T. e quello terrificante di Independance Day. Il suo ragionamento è il seguente: la razza umana esiste da circa 2 milioni di anni sui 15 miliardi dell'Universo. Una frazione minuscola. L'evoluzione della nostra razza è stata rapidissima (almeno negli ultimi 6-8000 anni, da quando abbiamo inventato la scrittura e dunque il passaggio delle informazioni tra le generazioni con una rapidità infinitamente superiore a quella delle mutazioni del DNA). Possiamo ipotizzare che, vista la rapidità del progresso tecnologico, tra un centinaio o poche centinaia di anni (oltre ad aver riprogettato il nostro DNA - cosa che trova inevitabile nonostante sia temibile) saremo in grado di muoverci tra i pianeti e le stelle. Se incontrassimo una razza aliena, la probabilità di incontrarla in uno stadio evolutivo analogo al nostro è trascurabile. Dunque, o li incontreremo in uno stadio molto più evoluto del nostro, oppure in uno stadio primordiale. Ma se li incontrassimo in uno stadio molto più evoluto, perché mai questi non si sarebbero mossi prima di noi venendoci a trovare? E per fortuna, poiché essendo loro molto più evoluti di noi probabilmente ci considererebbero come noi consideriamo insetti e lombrichi, rendendo più plausibile lo scenario di Independance Day che quello di E.T..

Cito testualmente:
Una spiegazione più plausibile [rispetto all'idea che ci siano alieni più evoluti che ci conoscono ed abbiano deciso di lasciarci cuocere nel nostro brodo primordiale ignorandoci] è che vi siano scarsissime probabilità che la vita si sviluppi su altri pianeti o che, una volta sviluppatasi, diventi intelligente. Poiché ci definiamo intelligenti [...], noi tendiamo a considerare l'intelligenza una conseguenza inevitabile dell'evoluzione, invece è discutibile che sia così: non è chiaro se abbia molto valore di sopravvivenza. I batteri se la cavano benissimo senza e ci sopravviveranno se la nostra cosiddetta intelligenza ci indurrà ad autodistruggerci in una guerra nucleare. Perciò, quando esploreremo la galassia, troveremo forse forme di vita primitive, ma è improbabile che incontreremo esseri come noi.
Lo scenario futuro non somiglierà a quello consolante dipinto da Star Trek, di un universo popolato da molte specie umanoidi, con una scienza e una tecnologia avanzate ma fondamentalmente statiche. Credo invece che saremo soli e che incrementeremo molto, e molto in fretta, le complessità biologica ed elettronica. Pochi dei progressi futuri si registreranno entro un secolo, e questa è l'unica previsione attendibile che possiamo fare. Ma verso la fine del prossimo millennio, se mai vi arriveremo, la differenza rispetto a Star Trek sarà grandissima.
[L'universo in un guscio di noce, 2001 - Cap. VI, "Il nostro futuro: Star Trek o no?"]

Possiamo leggerlo come un ritorno della scienza all'antropocentrismo?

lunedì 21 luglio 2008

Vi sono diversità di carismi, ma...

La teoria proposta dall’amico Ric sulla selezione naturale delle civiltà nella sua risposta a questo mio post è affascinante. Sarebbe interessante fare un’analisi storica per metterla alla prova. Ho l’impressione che al variare delle fasi storiche otterremmo risultati contrastanti. Un bel laboratorio è forse la comunità europea di oggi. Mi sa che stiamo assistendo ad un’italianizzazione dell’Europa anziché ad una europeizzazione dell’Italia, quindi ad una decivilizzazione, ma è solo una discutibilissima impressione. Se poi ampliamo la scala a livello globale, mi sa che le civiltà scassate non siano proprio dei panda, semmai il contrario. Però può darsi che guardando bene all’insieme anche nelle civiltà più scassate siano in corso dei processi evolutivi e può darsi che situazioni come la degenerazione dell’Iran negli ultimi decenni siano solo un processo patologico destinato alla regressione. Sono comunque molto tentato di cedere all’ottimismo in questo campo, dato che tutto sommato credo abbastanza (irrazionalmente) nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità (manzonianamente aiutata in questo dall’alto).

Trovo interessante la sua provocazione sulla genetica. Non avevo nessuna intenzione di farvi riferimento e non ho capito perché vi ha accennato, ma già che ci siamo ci ho pensato su un po’. La genetica comportamentale è una nuova scienza che non è affatto imparentata con il razzismo. Stiamo uscendo dall’epoca in cui si tendeva a considerare, senza verifiche empiriche, che il comportamento dell’individuo fosse determinato dall’ambiente piuttosto che non congenito. Gli studi più recenti tendono a riconoscere che l’elemento più determinante nel valutare l’intelligenza di un individuo sia quello ereditario (ambiti: intelligenza generale, abilità spaziale, capacità del linguaggio), mentre per quanto riguarda il comportamento ci sia un’incidenza variabile ma approssimativamente paritetica di entrambe le componenti congenita ed ambientale. I dati sono esposti per esempio qui, testo del 2004, quindi recentissimo, nel capitolo “Nature and nurture”, p. 47 (guarda un po’, i risultati si ricavano grazie alle famose correlazioni di cui stiamo chiacchierando dalle parti di Ric). Avendo una vita in più sarebbe interessante leggere anche questo e questo. L’ambiente fa molto per quanto riguarda la cultura, ma a livello intellettivo (e quindi comportamentale) c’è poco da fare.

The overall conclusion is clear: if we are to understand the course of children’s development and the reasons why particular individuals become the people they are, we must take into account their hereditary make-up and appreciate the extent to which genetic factors play a part in determining behaviour”.

Non mi piace scrivere queste cose perché sono pienamente consapevole che possano essere utilizzate come anticamera di una delle pratiche più odiose e nefaste per la storia dell’umanità, quella razzista, e anche perché ho appena scritto in casa di Ric che sono piuttosto incline a giudicare poco affidabili i risultati delle scienze umane. Se però le diamo per buone, perché non potremmo estenderle ritenendo che anche a livello delle comunità l’ereditarietà dell’intelligenza comporti gli effetti macroscopici così evidenti nella diversità dei comportamenti e delle culture? E’ chiaro che ci sono parecchi fattori mitiganti, tra cui il fatto che le migrazioni ed innesti ci sono sempre stati, non so se più in passato che oggi, e quindi diventa ridicolo oltre che pericoloso sviluppare un idea di una “razza” o etnia integralmente migliore dell’altra, senza considerare che è evidente a tutti quanto persino nella stessa famiglia le intelligenze ed i comportamenti possano essere disomogenei. Però liquidare il tutto a tema politicamente scorretto dal quale tenersi lontani forse è infilare la testa nella sabbia.

Dunque, che conclusioni trarre? Abbandonare il napoletano a se stesso concedendogli leggi che gli consentano di vivere nel suo casino cronico perché questo è tipico della sua cultura oppure conseguenza del cervello che gli è dato dal ceppo genetico? Costringerlo con la forza pubblica a seguire modelli che non gli sono propri e mai lo saranno in nome della superiorità di una civiltà altrui?

Forse la strada migliore è quella indicata dalla Chiesa, sulla scorta di san Paolo:
“Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito […] a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole”.

Giovanni Paolo II commenta:

Ma occorre prestare attenzione anche a un altro punto della dottrina di san Paolo e della Chiesa, che vale sia per ogni specie di ministero sia per i carismi: la loro diversità e varietà non può essere lesiva dell'unità. «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore» (1Cor 12,4-5). Paolo chiedeva il rispetto di quelle diversità, perché non tutti possono pretendere di svolgere la stessa funzione, contro il disegno di Dio e il dono dello Spirito, ed anche contro le più elementari leggi di ogni struttura sociale. Ma l'Apostolo sottolineava ugualmente la necessità dell'unità, che rispondeva anch'essa a una esigenza di ordine sociologico, ma ancor più doveva essere, nella comunità cristiana, un riflesso dell'unità divina. Un solo Spirito, un solo Signore. E, quindi, una sola Chiesa!

Credo che anche una società globalizzata possa attingere allo stesso modello. Rispettiamo quello che c’è di buono nel napoletano e non disperiamo nella possibilità di trovare un’unità tra lui ed il meranese, o tra l’islandese e lo zimbabwese. Non abbiamo paura però di cercare in tutti i modi di far sì che ci sia un’unica Umanità, la quale riconosca volente o nolente alcuni principî ineludibili. (Nella piccola bottega italiana, il federalismo fiscale nulla toglie a questo intento e mi sembra un’ottima soluzione se finalizzato al rispetto delle diversità.)


Nella mia prospettiva, in questa ricerca non ci accontenteremo di cercare il minimo comune multiplo né avremo troppe preoccupazioni di tutelare i panda. Non avremo paura di confrontare gli esiti che i vari modelli proponibili comportano nel tenore di vita dei loro cittadini. Ricorreremo a feliciometri di vario genere per aiutarci nella selezione, consapevoli che mai avremo la risposta definitiva in questa ricerca. Non esporteremo i modelli a viva forza perché abbiamo da tempo imparato che questo è controproducente, semmai adotteremo quelle tattiche subdole ma efficaci, eminentemente pubblicitarie, che dagli anni ’40 in poi hanno americanizzato con successo buona parte del mondo.