Trovo interessante la sua provocazione sulla genetica. Non avevo nessuna intenzione di farvi riferimento e non ho capito perché vi ha accennato, ma già che ci siamo ci ho pensato su un po’. La genetica comportamentale è una nuova scienza che non è affatto imparentata con il razzismo. Stiamo uscendo dall’epoca in cui si tendeva a considerare, senza verifiche empiriche, che il comportamento dell’individuo fosse determinato dall’ambiente piuttosto che non congenito. Gli studi più recenti tendono a riconoscere che l’elemento più determinante nel valutare l’intelligenza di un individuo sia quello ereditario (ambiti: intelligenza generale, abilità spaziale, capacità del linguaggio), mentre per quanto riguarda il comportamento ci sia un’incidenza variabile ma approssimativamente paritetica di entrambe le componenti congenita ed ambientale. I dati sono esposti per esempio qui, testo del 2004, quindi recentissimo, nel capitolo “Nature and nurture”, p. 47 (guarda un po’, i risultati si ricavano grazie alle famose correlazioni di cui stiamo chiacchierando dalle parti di Ric). Avendo una vita in più sarebbe interessante leggere anche questo e questo. L’ambiente fa molto per quanto riguarda la cultura, ma a livello intellettivo (e quindi comportamentale) c’è poco da fare.
The overall conclusion is clear: if we are to understand the course of children’s development and the reasons why particular individuals become the people they are, we must take into account their hereditary make-up and appreciate the extent to which genetic factors play a part in determining behaviour”.
Non mi piace scrivere queste cose perché sono pienamente consapevole che possano essere utilizzate come anticamera di una delle pratiche più odiose e nefaste per la storia dell’umanità, quella razzista, e anche perché ho appena scritto in casa di Ric che sono piuttosto incline a giudicare poco affidabili i risultati delle scienze umane. Se però le diamo per buone, perché non potremmo estenderle ritenendo che anche a livello delle comunità l’ereditarietà dell’intelligenza comporti gli effetti macroscopici così evidenti nella diversità dei comportamenti e delle culture? E’ chiaro che ci sono parecchi fattori mitiganti, tra cui il fatto che le migrazioni ed innesti ci sono sempre stati, non so se più in passato che oggi, e quindi diventa ridicolo oltre che pericoloso sviluppare un idea di una “razza” o etnia integralmente migliore dell’altra, senza considerare che è evidente a tutti quanto persino nella stessa famiglia le intelligenze ed i comportamenti possano essere disomogenei. Però liquidare il tutto a tema politicamente scorretto dal quale tenersi lontani forse è infilare la testa nella sabbia.
Dunque, che conclusioni trarre? Abbandonare il napoletano a se stesso concedendogli leggi che gli consentano di vivere nel suo casino cronico perché questo è tipico della sua cultura oppure conseguenza del cervello che gli è dato dal ceppo genetico? Costringerlo con la forza pubblica a seguire modelli che non gli sono propri e mai lo saranno in nome della superiorità di una civiltà altrui?
Forse la strada migliore è quella indicata dalla Chiesa, sulla scorta di san Paolo:
“Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito […] a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole”.
Giovanni Paolo II commenta:
Ma occorre prestare attenzione anche a un altro punto della dottrina di san Paolo e della Chiesa, che vale sia per ogni specie di ministero sia per i carismi: la loro diversità e varietà non può essere lesiva dell'unità. «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore» (1Cor 12,4-5). Paolo chiedeva il rispetto di quelle diversità, perché non tutti possono pretendere di svolgere la stessa funzione, contro il disegno di Dio e il dono dello Spirito, ed anche contro le più elementari leggi di ogni struttura sociale. Ma l'Apostolo sottolineava ugualmente la necessità dell'unità, che rispondeva anch'essa a una esigenza di ordine sociologico, ma ancor più doveva essere, nella comunità cristiana, un riflesso dell'unità divina. Un solo Spirito, un solo Signore. E, quindi, una sola Chiesa!
Credo che anche una società globalizzata possa attingere allo stesso modello. Rispettiamo quello che c’è di buono nel napoletano e non disperiamo nella possibilità di trovare un’unità tra lui ed il meranese, o tra l’islandese e lo zimbabwese. Non abbiamo paura però di cercare in tutti i modi di far sì che ci sia un’unica Umanità, la quale riconosca volente o nolente alcuni principî ineludibili. (Nella piccola bottega italiana, il federalismo fiscale nulla toglie a questo intento e mi sembra un’ottima soluzione se finalizzato al rispetto delle diversità.)
Nella mia prospettiva, in questa ricerca non ci accontenteremo di cercare il minimo comune multiplo né avremo troppe preoccupazioni di tutelare i panda. Non avremo paura di confrontare gli esiti che i vari modelli proponibili comportano nel tenore di vita dei loro cittadini. Ricorreremo a feliciometri di vario genere per aiutarci nella selezione, consapevoli che mai avremo la risposta definitiva in questa ricerca. Non esporteremo i modelli a viva forza perché abbiamo da tempo imparato che questo è controproducente, semmai adotteremo quelle tattiche subdole ma efficaci, eminentemente pubblicitarie, che dagli anni ’40 in poi hanno americanizzato con successo buona parte del mondo.